A cura di Rossella Ceccarini

CORTE DI CASSAZIONE, Sezione I Penale, sentenza n. 13094 del 10.11.2023 depositata il 29.03.2024

La Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13094 del 10 novembre 2023 depositata il 29 marzo 2024, ha ribadito che, ai fini dell’applicazione dell’art. 416-bis, comma 7, c.p. in relazione al capitale sociale ed al patrimonio dell’impresa, occorre accertare se essa possa o meno essere qualificata come “mafiosa”, condizione che ricorre “quando vi sia totale sovrapposizione tra le compagini associativa e criminale, ovvero quando l’intera attività d’impresa sia inquinata da risorse di provenienza delittuosa che abbiano determinato una contaminazione irreversibile dell’accumulo di ricchezza, rendendo impossibile la distinzione tra capitali leciti ed illeciti, o, infine, quando l’impresa sia asservita al controllo della consorteria, condividendone progetti e dinamiche e divenendone lo strumento operativo, con conseguente commistione tra le attività d’impresa e mafiosa” (C. Cass., Sez. I, n. 13043 del 04.12.2019; C. Cass., Sez. VI, n. 13296 del 30.01.2018). Nella medesima prospettiva, risulta, al contrario, insufficiente la mera partecipazione al sodalizio criminale di chi cura l’amministrazione o la gestione dell’azienda, se non accompagnata da una “correlazione, specifica e concreta, tra la gestione e le attività dell’impresa e le attività riconducibili all’associazione” (C. Cass., Sez. VI, n. 217 del 16.02.2021; C. Cass., Sez. VI, n. 6766 del 24.01.2024).

Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte di Cassazione riguardava un ricorso proposto avverso un’ordinanza emessa dalla Corte d’Appello di Palermo che aveva rigettato l’opposizione proposta ai sensi degli artt. 667, comma 4, e 676 c.p.p. avverso un provvedimento con cui lo stesso giudice aveva respinto l’istanza  di (…) intesa alla revoca, nella misura del 50%, della confisca del capitale sociale e del compendio aziendale della società (…) s.n.c., disposta, ai sensi dell’art. 416-bis, comma 7, c.p. La Corte d’Appello, adita, quale giudice dell’esecuzione, da (…) il quale, professandosi terzo di buona fede, aveva chiesto la revoca, nei limiti della quota di sua pertinenza, della confisca del capitale sociale e del compendio patrimoniale della (…), aveva disatteso l’istanza originaria e l’opposizione successivamente presentata ai sensi dell’art. 667, comma 4, c.p.p. sul rilievo, innanzitutto, della strumentalità dell’operazione immobiliare avviata da (…) al rimpiego di risorse di provenienza illecita, ciò che ha determinato l’asservimento dei beni de quibus agitur all’attività dell’associazione mafiosa della quale egli era, al tempo, esponente di spicco. Veniva quindi proposto ricorso per Cassazione articolato su tre motivi.

Gli Ermellini, nell’annullare l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo per un nuovo giudizio, hanno affermato che laddove l’impresa sia stata costituita mediante l’immissione di risorse non derivanti, in tutto o in parte, da fonti illecite, effettuata da un soggetto che non è un mero prestanome ma rappresenta anche i propri interessi, per la confisca dell’intero compendio dell’impresa – da qualificarsi come “a partecipazione mafiosa” – è necessario accertare se (e da quale momento) il ciclo aziendale sia stato inquinato dai metodi mafiosi, ovvero se l’attività imprenditoriale si sia sviluppata ed espansa con l’ausilio e sotto la protezione di un’associazione mafiosa (in questo senso, con diretto riferimento alla confisca di prevenzione ma con argomenti estensibili a quella ex art. 416-bis, comma 7, c.p., cfr. C. Cass., Sez. VI, n. 7072 del 14.07.2021, dep. 2022; C. Cass., Sez. V, n. 10983 del 27.09.2019, dep. 2020).


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CONFISCA: LA NOZIONE DI “IMPRESA MAFIOSA” DEVE DERIVARE DA UN ASSERVIMENTO AI FINI DELLA CONSORTERIA NON ESSENDO SUFFICIENTE L’INVESTIMENTO DI RISORSE ILLECITE

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