A cura della Redazione

CORTE DI CASSAZIONE, Sezione III Penale, Sentenza n. 5577 udienza del 12 ottobre 2022 – depositata il 09 febbraio 2023

La Suprema Corte con la sentenza n. 5577 del 09.02.2023 ha annullato senza rinvio la sentenza emessa nei confronti di uno dei due ricorrenti a causa della intervenuta prescrizione di alcuni reati rinviando ad altra sezione della Corte di Appello di Roma limitatamente ai residui reati a lui ascritti affermando che la tenuta della contabilità non costituisce, di per sé, atto gestorio dell’ente, nemmeno se si tratta, come nel caso di specie, di “contabilità separata”.

I fatti sottoposti al vaglio della Corte traggono origine dalla contestazione ai ricorrenti (due coniugi) del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000, perché, l’una quale legale rappresentante di una s.n.c., l’altro quale amministratore di fatto, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, non avevano presentato le dichiarazioni relative a dette imposte per gli anni di imposta 2010, 2011, 2012 evadendo l’IVA. I ricorrenti rispondevano, inoltre, entrambi dell’ulteriore reato di aver evaso, quali soci, anche le imposte sul reddito.

I ricorrenti lamentavano (con i primi tre motivi) la violazione dell’art. 5 d.lgs. n. 74/2000, in relazione agli artt. 192, comma 2, e 495, comma 2, c.p.p., sotto tre profili: a) il mancato accertamento della soglia di non punibilità; b) la mancata assunzione di una prova decisiva a discarico (la perizia contabile); c) il malgoverno logico degli indizi nella parte in cui sono stati computati, ai fini dell’imponibile, i costi sostenuti negli esercizi precedenti l’anno di imposta di riferimento. Lamentavano infine la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla valutazione della posizione del (…) illogicamente ritenuto dalla Corte di Appello amministratore di fatto dell’azienda di famiglia solo perché socio e utilizzatore esclusivo del computer attraverso il quale venivano gestiti i dati contabili. La presunzione della Corte di Appello è oltremodo smentita dall’istruttoria dibattimentale che ne ha rimandato l’immagine di un mero fac-totum.

La Corte di Cassazione afferma che “la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cod. civ. postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, ‘significatività’ e ‘continuità’ non comportano necessariamente l’esercizio di ‘tutti’ i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale (Sez. 2, n. 36556 del 24/05/2022, Desiata, Rv. 283850 – 01; Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534 – 01; Sez. 5, n. 43388 del 17/10/2005, Carboni, Rv. 232456 – 01; Sez. 5, n. 22413 del 14/04/2003, Sidoli, Rv. 224948 – 01). È stato al riguardo precisato che, ai fini dell’attribuzione della qualifica di amministratore ‘di fatto’, è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, Rv. 277540 – 01; Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, Rv. 269101 – 01; Sez. 5, n. 35346 del 2013, cit.).

Nel caso di specie, la Corte di appello ha ritenuto che il ricorrente amministrasse di fatto la società legalmente rappresentata dalla madre perché gestiva i dati contabili in un computer esclusivamente a lui in uso, «attività che finisce con l’attribuirgli una funzione di amministratore di fatto, tanto più esercitata nell’ambito di una società di persone in nome collettivo, a ristretta base familiare, laddove è più facilmente confondibile e non distinguibile l’attività amministrativa in capo ai familiari membri della componente societaria». Nel PC del ricorrente, infatti, erano state rinvenute «annotazioni contabili (…) in ordine alle fatture emesse e ai costi sostenuti, annotazioni dalle quali è possibile ricavare il guadagno d’impresa e, infine, le imposte dovute. È stata cioè riscontrata la presenza di una contabilità parallela che ha consentito di ricostruire analiticamente gli incassi giornalieri».

Né costituisce argomento persuasivo il fatto che il (…)  tenesse la contabilità in un contesto familiare-societario ristretto; si tratta, a ben vedere, di dato neutro che può valere, al più, a far ritenere la consapevolezza della «condizione di totale illegalità in cui l’azienda era collocata» (così il primo Giudice) ma tale consapevolezza non è di per sé sufficiente a integrare il concorso fattivo nella gestione della società se non si dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tenendo la contabilità egli avesse agevolato/favorito/istigato la commissione del reato omissivo per il quale si procede e comunque concorso nella gestione societaria.

Va piuttosto evidenziato che la Corte territoriale non sembra aver dato peso al possibile contributo dichiarativo dei testimoni indicati nell’atto di appello che avevano escluso qualsiasi atto gestorio del (…), non potendo certamente ritenersi tale lo svolgimento di mansioni esercitabili da un qualsiasi lavoratore dipendente. Ne è conseguito l’annullamento della sentenza impugnata nei confronti del ricorrente, e la preclusione della possibilità di rilevare cause di estinzione del reato, quale la prescrizione, verificatesi successivamente alla pronunzia della sentenza impugnata, per la inammissibilità del ricorso della ricorrente”.


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LA PROVA DELLA QUALIFICA DI “AMMINISTRATORE DI FATTO” NEI REATI TRIBUTARI

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